Ho finito di leggere l'interessante
libro di Jasper Juul e, data la mia naturale inclinazione all'autoflagellazione, non posso fare a meno di chiedermi se la mamma sia competente quanto il bambino. L'intento dell'autore non è certo quello di addossare colpe ai genitori, per quello ci pensano già abbastanza i diretti interessati, ma di dare indicazioni sull'educazione dei bimbi nel pieno rispetto della loro integrità. Questo è un concetto che viene ribadito più volte e che può in apparenza sembrare scontato, ma che in realtà non lo è affatto. Perché più e più volte come genitori tendiamo a non rispettare i nostri figli come persone, ad abusare del nostro potere, a denigrarli o blandirli come fossero esseri inferiori. E quel che è peggio giustifichiamo queste pratiche ritenendole necessarie per la loro educazione e il loro "bene" (sottintendendo "noi sappiamo cosa è meglio per te, i tuoi sentimenti non contano").
Sono tanti i passaggi che mi hanno colpito, prima di tutto la tesi di fondo, ovvero che il bambino sia sempre competente nel senso di collaborativo, idea che a prima vista mi è sembrata piuttosto balzana, avendo io una piccola ribelle bastian contrario per figlia. Ma la collaborazione del bambino può assumere diverse forme, anche non facilmente individuabili.
I figli smettono di collaborare perché l'hanno fatto troppo e per troppo tempo, oppure perché la loro integrità è stata ferita. Mai perché non sono collaborativi.
L'autore fa tanti esempi nel corso del libro (cosa che io apprezzo sempre molto) e uno dei primi va subito a toccare un nervo scoperto: la bimba che piange quando viene lasciata al nido dalla madre. Secondo Juul è la madre ad essere ansiosa e triste e la piccolina avverte questi sentimenti e li copia, sta collaborando con la madre comunicandole un messaggio del genere: "c'è qualcosa che non va, che non è chiaro. Ti faccio sapere che ho capito, e penso che ti assumerai la responsabilità di risolvere il problema, in modo che poi potremo entrambe stare meglio". Ma la madre considererebbe collaborazione solo il commiato senza lacrime e non riesce a interpretare la reazione della figlia come collaborativa. I genitori hanno confuso la "collaborazione" con il "comportarsi bene". Hanno preferito porre l'attenzione sull'obbedienza piuttosto che instaurare una relazione basata su uguale dignità.
Un altro argomento che mi ha toccato molto è quello dell'autostima del bambino legata al suo bisogno di essere visto. Per esempio la bimba che fa lo scivolo e grida: "guardami, mamma!" si sentirà probabilmente rispondere: "sei andata benissimo, brava!", che, pur essendo una risposta amorevole, collega la bimba al risultato ottenuto dandole la sensazione che sua madre non stia realmente comunicando con lei. La bambina sta vivendo un'esperienza e quando dice: "guardami!" chiede solo che le vengano confermate la sua esistenza e la sua esperienza. Altri genitori esprimono il loro amore concentrandosi su se stessi: "fai attenzione a non cadere e a non farti male". Quest'ansia incessante frena lo sviluppo dell'autostima del bambino, perché il messaggio che lui riceve è: "non mi aspetto che tu ce la faccia"; sposta l'attenzione del bambino dalla propria esperienza e la trasferisce ai sentimenti della madre. Se la madre è spesso preoccupata, il figlio si metterà certamente a collaborare, diventando schivo e ansioso a sua volta (collaborazione diretta) oppure maldestro, facile agli incidenti, per portarsi al livello delle aspettative negative della madre (collaborazione inversa).
Da persona e madre ansiosa non posso che mettermi in allarme leggendo tutto ciò... :(
Ci sarebbero tantissimi passaggi e concetti che vorrei ricopiare, il libro fisico è stato sottolineato a dovere (anche dall'aliena stessa che ci ha pastrocchiato sopra!), ma mi limiterò a qualche "perla di saggezza" comprensibile anche senza spiegazioni, consigliando a chiunque abbia avuto la pazienza di leggere il post di recuperare il libro, davvero denso di spunti di riflessione!
Quando penso a quanto ci danno i figli, penso soprattutto alle sfide esistenziali che ci costringono ad affrontare, per il solo fatto che essi sono ciò che sono. Ci inducono a riflettere sui nostri comportamenti distruttivi, ci portano al limite della sofferenza e ci fanno dubitare delle nostre capacità di genitori; smascherano i nostri rozzi tentativi pedagogici di manipolazione e insistono sulla nostra presenza personale; ci offendono rifiutando il nostro consiglio e la nostra guida; affermano orgogliosamente il loro diritto di essere differenti; si comportano in modo distruttivo, costringendoci ad ammettere di avere sbagliato. In breve, la loro competenza ci impressiona al punto che dobbiamo riconoscerla, o mentire a noi stessi.
Noi possiamo usare il nostro potere economico, fisico o sociale sia per dare che per negare ai figli ciò di cui hanno necessità, ma quando lo usiamo per decretare che le loro reazioni o i loro sentimenti sono "sbagliati", commettiamo un abuso.
L'impulso struggente di proteggere e amare la propria creatura, e il desiderio di procurarle un avvenire felice, sono come l'alba della nostra vita. [...] Ma quest'impulso è reciproco. I figli lo vivono in relazione a noi. [...] I figli ci permettono di sentirci un valore in virtù della loro esistenza. E a sua volta questo permette a loro di sentirsi un valore per noi. Tutto questo è possibile solo se impariamo a contenere il nostro egoismo e a riconoscere la competenza personale dei figli come un dono - un dono che loro non sanno di offrire fino a quando non lo accettiamo. Se non riusciremo a impararlo, cresceranno nella convinzione di non avere altro valore di quello espresso dai voti scolastici o dal successo sociale. Questo non solo è doloroso per loro e stigmatizzante per noi, ma non li aiuta a diventare membri produttivi della società.